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Il contenzioso climatico

Il cambiamento climatico costituisce (di gran lunga) la principale minaccia al godimento dei diritti umani fondamentali. I suoi impatti – sia quelli a lenta insorgenza (come la siccità, la scarsità di cibo, l’innalzamento dei mari, la desertificazione), sia quelli immediatamente percepibili (ondate di calore, inondazioni, uragani) – producono massicce violazioni di diritti con ordini di grandezza mai registrati prima.

Per avere una comparazione immediatamente percepibile, secondo l’OMS (Health Emergency Dashboard) alla data del 7 aprile 2022 la pandemia dovuta al virus Covid-19 ha provocato dal momento della sua insorgenza (e quindi in circa due anni e mezzo) oltre 6.000.000 di decessi nel mondo.

Uno studio pubblicato sulla rivista “The Lancet Planetary Health” nel luglio 2021 riferisce che solo gli impatti legati alle ondate di calore e di gelo anomale provocano ogni anno più di 5 milioni di decessi nel mondo.

Se guardiamo invece le statistiche elaborate dall’Internal Displacement Monitoring Center, relativamente all’anno 2020 su un totale di 40,5 milioni di sfollati nel mondo, circa 10 milioni risultano causati da guerre e conflitti armati, mentre circa 30 milioni risultano provocati dagli impatti dei cambiamenti climatici.

La gravità di tali impatti è nota da decadi; l’IPCC da diversi decenni sta avvisando i decisori politici della catastrofe a cui stiamo andando incontro, e le sue previsioni si sono sempre avverate.

Tra l’agosto 2021 e l’aprile 2022 l’IPCC ha pubblicato il suo ultimo Assessment Report (diviso in tre parti), rilevando che la concentrazione dei gas serra in atmosfera – in particolare della CO2 – è in costante aumento, nonostante gli impegni presi a livello internazionale dalla comunità degli stati.

Sotto questo aspetto, le varie COP che si sono succedute (l’ultima a Glasgow) sono un clamoroso fallimento. Questo grafico spiega bene il concetto

La linea blu mostra il costante aumento della concentrazione di CO2, anche dopo l’approvazione dell’Accordo di Parigi, arrivando a toccare la preoccupante quota di 420 per milioni nel 2022, un livello sconosciuto all’homo sapiens.

Questo l’andamento della concentrazione negli ultimi 800.000 anni:

La comunità scientifica concorda sulle misure che si dovrebbero adottare per contrastare l’emergenza climatica: iniziare a tagliare le emissioni di gas serra subito, tagliarle drasticamente, per arrivare al 2050 ad emettere solo quella quantità di emissioni che possono essere interamente assorbite dai sistemi esistenti, determinando quindi un risultato complessivo di emissioni definito “net zero”.

A quanto ammonterà precisamente questa quantità dipenderà principalmente dallo stato del “verde” esistente al mondo e dallo sviluppo di eventuali tecnologie in grado di catturare i gas serra e rimuoverli dall’atmosfera (allo stato, tali tecnologie sono una scommessa).

Ciò che è chiaro è che gli Stati dovrebbero mettersi sulla retta via e tagliare le emissioni da subito.

E non lo stanno facendo. Secondo l’UNEP (Emissions Gap Report 2021), le politiche climatiche correnti adottate dagli stati porteranno ad un aumento della temperatura globale di 2,7°C entro la fine del secolo, mentre la “soglia critica” – come noto – è quella di 1,5°C, per raggiungere la quale si dovrebbero dimezzare le emissioni annuali di gas serra entro il 2030.

Visto che l’emergenza climatica è causata dall’eccessiva concentrazione di gas serra in atmosfera e che per contrastare la stessa è indispensabile tagliare le emissioni, gli stati e le imprese operanti nei settori maggiormente climalteranti (combustibili fossili ed allevamenti intensivi) che non allineano le loro scelte a ciò che la comunità scientifica individua come necessario, si assumono una grande responsabilità.

Una responsabilità che è morale (perché contribuiscono ad aggravare l’emergenza climatica), ma che è anche giuridica (perché aggravano una situazione di pericolo per il godimento dei diritti fondamentali).

Questo concetto spiega l’esplosione del contenzioso climatico, cioè l’insieme dei giudizi (davanti ai Tribunali) o di altre procedure cd. quasi-giudiziarie (dinanzi a Comitati o altri organismi) che vedono come “protagonista” il cambiamento climatico. Al febbraio 2022 nel data base del Sabin Center for Climate Change Law sono censite 2319 controversie, di cui 1703 lanciate negli USA e 616 nel resto del mondo.

Il contenzioso climatico è rivolto agli stati ed alle imprese (in particolare, quelle che operano nel settore estrattivo) e presenta una variegata gamma di possibilità, a seconda delle richieste formulate dai ricorrenti: dal taglio delle emissioni, all’annullamento di autorizzazioni o concessioni (ad esempio, per nuove trivellazioni o aperture di miniere), all’annullamento di leggi o altri provvedimenti normativi, alla trasparenza informativa, alle misure di adattamento agli impatti climatici, al risarcimento danni.

La maggior parte di queste procedure sono state attivate dinanzi a Tribunali, per lo più civili.

Pur determinando le sorti del pianeta, le politiche climatiche degli stati, così come i piani industriali delle imprese, vengono spesso “inquinati” – è il caso di dirlo – da fattori esterni (principalmente di natura economica) che impediscono ai primi di adeguare le proprie scelte a ciò che la comunità scientifica indica.

Il processo decisionale degli stati, ed a maggior ragione quello delle imprese, è quasi sempre condizionato dall’esigenza di raccogliere risultati nel breve periodo e soprattutto viene influenzato da un modello di analisi costi-benefici troppo schiacciato sui parametri economici.

In Tribunale le cose possono anche andare diversamente, perché ciò che viene posto all’attenzione del Giudice è l’esistenza della violazione di una o più norme giuridiche e la lesione di alcuni interessi meritevoli di tutela.

Le necessità di produrre un risultato e breve termine o di garantire un utile economico possono passare in secondo piano rispetto alla valutazione della condotta di un soggetto che opera all’interno di una situazione “pericolosa” (l’emergenza climatica), idonea a violare diritti fondamentali (gli impatti dei cambiamenti climatici), ben nota e che potrebbe essere evitata (applicando le conoscenze scientifiche).

In Tribunale le conoscenze scientifiche non costituiscono una opinione come le altre; non hanno lo stesso peso di una opinione politica o di un interesse economico.

Ecco perché in molti casi i Tribunali accolgono le domande, imponendo a stati o imprese di modificare le proprie scelte ed i propri impatti climatici.

La Shell lo ha sperimentato a proprie spese. Come quello di ENI, il piano industriale della Shell sembra vivere nel metaverso, in una situazione spazio-temporale asettica, che non tiene minimamente conto della emergenza climatica in atto.

Per tale motivo, alcune associazioni ambientaliste hanno chiesto al Tribunale civile dell’Aja condannarsi la Shell a modificare il suo piano industriale, tagliando le emissioni in maniera radicale. La Shell si è difesa – tra l’altro – sostenendo che è regolarmente autorizzata ad emettere in atmosfera i livelli di gas serra contemplati nel suo piano e che dunque la sua condotta non può essere considerata illecita.

Il Tribunale ha accolto la domanda, ordinando alla Shell di tagliare entro il 2030 le emissioni del 45% rispetto ai livelli del 2019. Attualmente, la causa pende dinanzi alla Corte di Appello.

In Inghilterra è invece partita un’azione di responsabilità contro tutti i membri del C.d.A. della Shell ad opera di un azionista, che ha accusato l’intero board di mettere a repentaglio gli asset societari NON perseguendo in modo efficace la transizione ecologica.

Aldilà dell’esito finale di questi giudizi, una cosa è certa: con il contenzioso climatico è cessata l’era della impunità per chi continua a porre in essere delle scelte climatiche inadeguate rispetto alla emergenza climatica.

Ecco perché gli sviluppi e le articolazioni possibili di questo fenomeno lo rendono un’arma formidabile nella lotta verso una transizione ecologica efficace.

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