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Davide che sfida Golia. Come si è arrivati ad accusare l’ENI di devastazione ambientale.

di Luca Saltalamacchia

1) Come sanno tutti quelli che hanno occhi per vedere, siamo in piena emergenza climatica. Gli impatti del cambiamento climatico sono sempre più evidenti, con manifestazioni sempre più frequenti. E gli Stati già dalla fine degli anni ‘80 hanno provare a dotarsi di alcune regole ed alcuni obiettivi comuni per contrastare il riscaldamento globale.

Questo percorso è culminato con la Decisione 1/21 approvata in seno alla COP 21 tenutasi a Parigi, che ha definito i cambiamenti climatici “una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e il pianeta”, di cui l’Accordo di Parigi costituisce un allegato. Su LEF abbiamo già parlato di questo Accordo, dei suoi limiti e dei punti di forza.

È un dato di fatto che esso sia un Accordo stipulato e ratificato dagli Stati (singolarmente o cumulativamente per effetto delle organizzazioni regionali, come l’Unione Europea). Vincola i contraenti. Non è scontato, però, che il suo contenuto riguardi e produca effetti anche per i privati.

Il punto è che gli accordi internazionali, una volta ratificati dagli Stati ed introdotti nei rispettivi ordinamenti, si coordinano con le norme nazionali e producono effetti diversi. Tuttavia, ill 26 maggio 2021, la Corte distrettuale dell’Aia ha emesso una sentenza a dir poco rivoluzionaria, che ha deciso un giudizio civile contro la Royal Dutch Shell, condannando quest’ultima a tagliare le emissioni climalteranti. Si tratta della prima sentenza di questo tipo: è la prima volta al mondo che un Tribunale riconosce oil principio che anche una multinazionale ha obblighi climatici.

Il caso è stato presentato, con le forme (consentite nell’ordinamento olandese) della class action di interesse pubblico, dall’associazione ambientalista Milieudefensie (la sezione nazionale della ONG Friends of the Earth) anche per conto di 17.379 ricorrenti individuali e di altre sei ONG.

La convenuta (Royal Dutch Shell) è una multinazionale che opera in tutto il mondo producendo un livello complessivo di emissioni di gas serra superiore a quella di molti stati. La Shell fornisce dunque un contributo significativo all’emergenza climatica in atto ed agli impatti climatici che colpiscono i Paesi Bassi, in particolare nella regione di Wadden.

Per quel che qui interessa, la questione fondamentale dibattuta nel giudizio consisteva nello stabilire se la Shell avesse o meno l’obbligo di ridurre le proprie emissioni di CO2 e, di conseguenza, se ed in che modo la sua attività dovesse conformarsi ai target di riduzione stabiliti a livello internazionale. Rispondendo affermativamente, la Corte dell’Aia ha condannato Shell a ridurre le emissioni di CO2 prodotte dall’attività dell’intero gruppo del 45% netto entro la fine del 2030 rispetto ai livelli al 2019.

Peraltro, il livello base su cui operare i tagli, secondo la Corte, comprende tutte le emissioni prodotte o associate alle attività di Shell, e quindi

• quelle definite Scope 1: emissioni provenienti direttamente da asset di proprietà dell’azienda o che l’azienda controlla;

• quelle definite Scope 2: emissioni indirette derivanti dalla generazione di elettricità, calore e vapore importati e consumati dall’azienda;

• quelle definite Scope 3: emissioni indirette dovute all’attività dell’azienda, comprese quelle che si determinano dalle scelte dei consumatori.

2) Come è stata possibile questa sentenza?

Diciamo subito che essa si è basata solo indirettamente sulle norme internazionali. La domanda dei ricorrenti era fondata principalmente sul diritto civile nazionale, applicabile per effetto del Regolamento UE 864/2007 (cd. Roma II). Per effetto del diritto olandese, la Shell ha violato uno “standard di diligenza” in quanto, pur non svolgendo una attività “contra legem”, ha agito “in conflitto con ciò che è generalmente accettato secondo la legge non scritta”.

La Corte ha rilevato che la dovuta diligenza avrebbe richiesto a Shell di rispettare gli obblighi internazionali in materia di diritti umani, che sono gravemente minacciati dal cambiamento climatico, richiamando anche le Linee Guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani, ritenendole “un autorevole ed internazionalmente approvato strumento di soft law che prevede la responsabilità degli Stati e delle imprese in relazione ai diritti umani”. Sul punto, la Corte (par. 4.4.11), pur precisando che le Linee Guida non “stabiliscono obblighi giuridicamente vincolanti”, rileva che esse “sono idonee a fornire una linea guida nell’interpretazione dello standard di diligenza”, e quindi a comprendere se le imprese abbiano agito “orientando” in maniera corretta il loro obbligo di diligenza.

Secondo la Corte, insomma, Shell aveva l’obbligo di porre in essere “i migliori sforzi possibili” per adottare le misure necessarie a rimuovere o prevenire i gravi rischi derivanti dalle emissioni di CO2 generate dalla sua attività. E i migliori sforzi possibili, secondo la Corte, non possono che essere funzionali ed in linea con i target stabiliti dall’Accordo di Parigi, in quanto gli stessi rappresentano una esplicitazione degli studi scientifici più aggiornati, peraltro supportati da un consenso internazionale amplissimo, se non quasi unanime (par. 4.4.27).

La Corte ha infine concluso che per poter centrare gli obiettivi stabiliti nell’Accordo di Parigi i rapporti dell’IPCC implicano che sia necessario seguire uno dei percorsi di riduzione netta delle emissioni di CO2 almeno del 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010. Questi percorsi di riduzione sono gli unici in grado di “prevenire le conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici pericolosi”.

Shell ha impugnato la sentenza, ma nel frattempo in tutto il mondo si discute sui pro ed i contro di questa sentenza.

3) L’aspetto innovativo del provvedimento della Corte, a mio avviso, è quello di centrare il cuore del problema senza formalismi: se l’attività della Shell contribuisce ad aggravare una situazione emergenziale in atto, allora – ancorché lecita ed autorizzata – Shell deve adoperarsi per ridurre al minimo il rischio che dalla sua attività derivino ulteriori conseguenze dannose per terze persone.

I talebani neoliberisti – quelli secondo cui i diritti umani e l’ambiente sono una zavorra al libero mercato – hanno criticato il provvedimento sostenendo innanzitutto che esso altera la concorrenza: per loro la concorrenza prevale su tutto, anche sulla vita umana, per cui è ingiusto che l’impresa Shell sia costretta a modificare il suo piano industriale per effetto dell’imposizione di un Giudice, mentre le sue concorrenti no.

Altro discorso trito e ritrito delle avanguardie neoliberiste riguarda il fatto che è irragionevole computare a carico di Shell anche le emissioni Scope 3, ovvero quelle prodotte dai consumatori nel momento in cui utilizzano i prodotti Shell. Secondo costoro, è ingiusto punire solo il produttore di un bene pericoloso e non anche l’utilizzatore (ad esempio, il proprietario di SUV o motoscafi, oppure chi tiene l’aria condizionata sempre accesa, etc.).

Io non entro nel merito di queste argomentazioni, e mi limito ad osservare che possono reggersi solo se si perde di vista la scala di valori, che invece la Corte dell’Aia ha correttamente individuato: un’attività potenzialmente in grado di aggravare un fenomeno che incide sui diritti umani e sulla sopravvivenza del Pianeta per come lo conosciamo è un’attività che non può proseguire impunemente.

Non è un caso che stanno sorgendo in tanti Stati contenziosi contro le imprese che operano nei settori economici a maggior impatto climalterante. Così, lo scorso 26 luglio 2021 ci siamo mossi anche qui in Italia:  un network di giuristi, di cui faccio parte, la “Rete Legalità per il Clima” (www.giustiziaclimatica.it), ha inviato una diffida climatica ad ENI, il maggior produttore di gas serra italiano.

4) Per avere una idea di quanto l’attività di Eni sia impattante, si pensi che nel 2018 le società del gruppo ENI hanno emesso complessivamente una quantità di gas serra superiore a quella dell’intero Stato italiano: circa 537 milioni di tonnellate di CO2-eq rispetto a circa le 428 prodotte dall’Italia.

ENI è perfettamente consapevole che le sue attività producono impatti devastanti sul clima. Basta dare uno sguardo al suo sito (www.ENI.it) ove si legge che aderisce agli obiettivi dell’Accordo di Parigi di limitare gli aumenti di temperatura ben al di sotto dei 2 °C. E però la sua strategia aziendale rimane fedele alle energie fossili, come confermato dal recente Piano strategico per gli anni 2021-2024.

Si tratta di un Piano contraddittorio ed inadeguato, perché prevede nei prossimi anni un aumento delle emissioni di gas serra e non una sua riduzione, rimandata troppo avanti negli anni; inoltre, gran parte di questi tagli non sono reali ma solo ipotetici, perché legati non ad una riduzione delle emissioni ma ai progetti di compensazione delle emissioni ed all’utilizzo delle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 (CCS), altamente insicuri ed ambientalmente insostenibili.

In altre parole, il piano industriale di ENI non contribuisce a ridurre la minaccia climatica, ma addirittura ne aumenta i rischi. Per tali motivi, “Rete Legalità per il Clima” ha diffidato ENI a deliberare entro il 10/11/21 di:

1) abbattere le proprie emissioni di gas serra, dirette e indirette, ad un livello compatibile con il target di lungo termine indicato dall’art. 2 dell’Accordo di Parigi;

2) abbandonare, entro e non oltre il 2022, qualsiasi finanziamento al fossile (come indicato dall’IEA);

3) escludere la produzione di idrogeno blu.

Qui il testo completo della diffida.

Con questa azione, si è aperta anche in Italia la questione della responsabilità climatica delle imprese. Vedremo nei prossimi mesi come ENI affronterà la questione. Ma è un dato di fatto che oramai le imprese multinazionali non possono più godere della totale impunità relative agli impatti del proprio business.

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